Viaggio in Thailandia – giorno 10
Alle 7 e un quarto sono già in piedi, niente mal di testa, bene. Vado in bagno e appena mi seggo sulla tazza il mio occhio cade sul sifone del lavandino di fronte. Non posso crederci: poggiata beatamente sul tubo di scarico c’è una rana! Alla faccia della natura, bisbiglio. E’ diversa da come le ho sempre viste in Italia, è più paciocca ed assomiglia ad una di quelle riproduzioni in legno che si vedono sulle bancherelle di tutto il mondo. Mi alzo dalla tazza coll’intenzione di recuperare la macchina fotografica e ritrarla per il blog; per non spaventarla cerco di non fare nessun movimento che non sia strettamente necessario, pertanto non mi tiro su mutande e pantaloncini e come un pinguino mi muovo a passetti verso lo zaino con l’attrezzatura. Prendo la macchina e torno sempre con gli slip alle caviglie a passetti come una geshia maniaca, e quando arrivo mi abbasso per scattare ma è sparita. Evidentemente si sarà risentita per la visione che le ho regalato, sarà stato maschio, penso sorridendo.
Alle otto sono al Three Bees per aspettare il bus che mi porterà all’escursione ad Hong island. Lì trovo Daniela che mi aspetta con un bel sorriso, evidentemente è contenta della scelta fatta. Prendiamo qualcosa da mangiare al buffet della guest house di Federico che con 149 bath ti offre colazione europea e inglese (adoro la colazione con uova strapazzate e bacon) e sfotto un po’ il proprietario per la scelta di quel nove finale invece dello zero: un vecchio trucco dei negozi occidentali che qui ancora non avevo visto. Nemmeno il tempo di sederci e arriva il pulmino. Io e Daniela ci guardiamo con i piatti ancora pieni: e ora? dicono i nostri reciproci sguardi. Chiedo al ragazzo che ha il foglio in mano se parte subito, ma mi tranquillizza spiegandomi che mi aspetta per 5 minuti. Ingurgitiamo tutto velocemente e saliamo sul mezzo che ci aspetta. Siamo i primi e ci sediamo sulle panche di legno verniciate di blu di questo sorng-taa-ou un po’ più grande degli altri. Cominciano a salire gli altri turisti e piacevolmente noto che la maggioranza sono orientali. Faccio un paio di scatti durante il tragitto e mi concentro soprattutto su una ragazzina tailandese bellissima che è lì con tutta la sua famiglia.
Arriviamo alla solita pineta dove vengono raccolti i gruppi, lì si aggiungono altri turisti e tra questi si fa subito notare una signora francese sui sessant’anni con il marito a fianco. In un inglese con erre moscia chiede a tutti la provenienza e il nome, guarda dritto in faccia l’interrogato di turno, sorride, e passa al successivo. Quando ci dicono che partiremo con una mezz’oretta di ritardo tutti prendiamo la notizia con calma, siamo in vacanza e qualche minuto di attesa non è la fine del mondo. La guida si scusa e spiega che pertanto torneremo mezz’ora dopo affinché il tour abbia comunque la durata promessa. La francese comincia a lamentarsi col marito che sta lì muto a fianco a lei. Si lamenta con quella arroganza degna del grandeur parigino che alcuni nostri cugini si portano sempre dietro. Non parla benissimo l’inglese e lo capisce ancora meno, ogni volta che la guida dice qualcosa (in un modo effettivamente poco comprensibile) lei chiede al marito cos’ha detto la guida sebbene sappia che lo sposo non parla nessuna lingua straniera. Ogni volta ottiene dal compagno uno schiocchiare delle labbra per dire che non sa , è un suono che sembra una pernacchietta. Lei di contro gira subito la domanda in inglese a qualcuno che le sta vicino che pazientemente ripete lentamente affinché lei capisca. La signora è bionda con tondi occhi azzurri infossati sopra pesanti borse e rughe intorno che dichiarano tutta la sua età. Ha una visiera rosa con fascia bianca a cingere la testa riccioluta come protano alcuni giocatori di golf. E’ grassa, di quella abbondanza tipica del benessere occidentale, ed ha una magliettina bianca da tennis e dei pantaloncini panna che mettono in evidenza le forme straripanti e le vene varicose su tutte le gambe. Parla costantemente e si muove senza sosta. Non riesce a stare ferma nemmeno per un secondo, anche se legge qualcosa lo fa muovendo costantemente la testa e il busto, avvicina e allontana i fogliettino dell’escursione come se avesse difficoltà a mettere a fuoco e poi a sinistra e a destra come se gli scappasse di mano. Espira, inspira, muove la testa e sbuffa. Si muove in maniera tanto febbrile che pare che stamattina abbia deciso di sniffare tutta la cocaina che le hanno offerto da giovane e che non ebbe l’ardire di provare. Tra l’altro spesso beve da una strana bottiglia che sembra si acqua ossigenata, e scherzando dico a Daniela che si tratta di droga. Provo per lei da subito una forte antipatia che mi spinge ad evitare il suo sguardo, non voglio che mi parli, che mi sorrida, non voglio essere contagiato da tanta frenesia. Il marito si chiama Dominique (lo so perché sta a chiamarlo in continuazione e lo tratta come fosse un bambino), è alto e magro, non dice quasi mai nulla, sta fermo nel suo posto e sembra completamente annichilito. Con Daniela ci domandiamo come possa sopportarla. Spero tanto che andremo su a visitare una scogliera e che mi chieda di scattarle una foto, le dirò con gioia: un po’ più indietro, un po’ più indietro, ancora un po’… Saliamo su una long tail boat, a bordo la maggioranza sono orientali, gli unici occidentali, oltre a me e Daniela, sono una coppia di anziani sudamericani molto affettuosi l’uno con l’altra e la francese iperattiva con il marito. Ci sono due coppie di cinesi con le meravigliose figlie e suocere a seguito, una coppia di innamoratissimi indiani con una bambina nerissima di circa tre anni che sembra un maschietto, e una famiglia di tailandesi con la bellissima figlia che ho fotografato sul pulmino e il nonno. Il nonno è un tipo magro e tranquillissimo che per tutta l’escursione tracanna in silenzio lattine di birra Singa e scruta l’orizzonte con il binocolo. Le bambine cinesi sono cugine e hanno personalità opposte, estroversa e curiosa una, nel suo mondo e testarda l’altra. La bambina indiana colpisce la mia attenzione per l’attaccamento che dimostra nei confronti dei genitori, ogni volta che uno solo dei due si stacca da lei, piange forsennatamente, li vuole entrambi e pretende il contatto fisico, appena i genitori si ricongiungono torna immediatamente a sorridere. Durante il viaggio mi diverto soprattutto a scattare ritratti e a puntare il mio obiettivo più sui visi interessantissimi dei miei compagni di gita che non sull’orizzonte. Il timoniere spesso guida la barca al modo tailandese tenendo il timone con il piede e dimostrando una prensilità degna di un orangotango, inoltre lui e la nostra guida hanno delle facce cinematografiche che ispirano la mia macchina fotografica.
La francese continua a muoversi senza sosta. Le long tail boat sono barche non stabilissime per cui non è buona idea spostarsi da un lato all’altro ma lei lo fa per scattare foto; si appoggia sul malcapitato di turno, dice sorry strisciando la err e scatta. La guida la richiama più volte ma è più forte di lei, deve muoversi. Con la testa, col busto, destra, sinistra, su e giù; si alza, si sposta, torna a sedersi, fa ripetutamente le stesse linguacce al bambino indiano e si rialza. Si muove con una frenesia che non ho mai visto e che ormai me ne convinco è psicotica. Pare che abbia un bisogno incontrollabile di muoversi come se le avessero detto che domattina si sveglierà paralizzata e che lo sarà per il resto di tutta la sua vita. Ormai non la sopporta più nessuno sulla barca, i cinesi all’inizio borbottano tra loro e ne ridono, persino la fotografano mentre tutta storta si poggia con le gambe piegate come fosse una scimmia sul marito per scattare le milionesima foto con l’orizzonte inclinato, dopo cominciano anche loro ad esserne seccati. La guida, per un discorso di equilibri, mi fa cambiare di posto e mi tocca sedermi a fianco all’iperattiva. Guardo Daniela con disperazione. Spesso mi urta con le ginocchia e coi gomiti nei suoi movimenti febbricitanti. Ad un certo momento mi viene una voglia irrefrenabile di afferrarla di peso con tutti i suoi ottanta chili e scaraventarla in mare in un gesto unico e istantaneo… vedo perfettamente la scena: lei che urla in francese ‘qu’est-ce que tu fais? qu’est-ce que tu fais?!’, visualizzo perfettamente il suo tonfo spumoso nel mar delle Andamane e sento gli applausi di tutti i presenti sulla barca, mi giro e a grandi sorrisi mi fanno i complimenti battendo le mani, c’è chi mi alza il braccio come fossi un campione e Dominique mi abbraccia commosso urlando “merci! Merci! Tu me as liberé! Merci!”. Purtroppo è solo una fantasticheria e mi sfogo a raccontarla a Daniela che si piega dalle risate.
Durante il tragitto ci fermiamo a Red Island, uno scoglio dalle rocce rossastre dove ci tuffiamo una ventina di minuti per fare snorkeling. Il mare è pieno di pesci colorati che riprendo con la videocamera subacquea. Riprendiamo il tragitto e ci infiliamo in Hong Island’s Lagoon; si tratta di un’enorme laguna con le scogliere ricoperte di mangrovia tutte intorno. Non c’è però la luce adatta e io non ho nemmeno con me la giusta attrezzatura per rendere giustizia al luogo e scatto solo due fotografie che però cestino subito dopo. Arriviamo a Lading Island e lì ci fermiamo a pranzare. Il posto è davvero suggestivo, c’è della gente ma non troppa. E’ una spiaggetta all’interno di una baia con acque limpide e scogliere a picco. Su una altalena legata ad un grosso albero due giapponesine si fanno fotografare da un passante e io lì a fianco fotografo una corda pendente a cui ci si può aggrappare per dondolarsi in questo incantevole posto. Una ragazza prova a vivere l’esperienza ma sebbene faccia diversi tentativi non riesce nell’impresa, io le suggerisco come fare e riesce a montare su e a farsi una dondolata a mo’ di Jane. Arrivo alla fine della spiaggetta e, mentre sto fotografando, un gatto isolano mi si striscia tra le gambe. Con il suo manto bianco con grosse chiazze nere sale su un tronco proprio mentre sto scattando il panorama. Torno all’ora fissata lì dove siamo scesi, hanno imbandito il nostro buffet su una tavolaccia di legno tarlato. E’in occasione del pranzo che capisco come fa Dominique a sopportare l’iperattiva, la semplice verità è che è completamente idiota. Avevo avuto qualche sospetto già durante il tragitto per come si faceva fare tutto dalla moglie e per come le stava attaccato alla gonna, ma qui ne ho la prova: lo vedo avvicinarsi al tavolo per prendere della frutta, e lo vedo lentamente e con meticolosità riempirsi il piatto di buccia di ananas. Dall’altra parte c’è un vassoio di fette di ananas sbucciata e anguria dolcissima che aspettano di essere mangiati, e lui invece cosa fa? si prende la buccia. Penso che forse la buccia spinosa di questo frutto abbia qualche proprietà a me sconosciuta e che l’iperattiva abbia letto in qualche libro di medicine alternativa che è un energizzante o un afrodisiaco, che ne so… e che l’iperattiva gli abbia ordinato di portargliele, ma poi come un ciclone arriva l’iperattiva che lo rimprovera sonoramente ‘mais qu’est ce que tu fais?”, queste sono le bucce, Dominique! Le fette, le fette, quelle devi prendere, sono là! Ma sei cieco?!”. Stupito dalla scena, traduco a Daniela e ci facciamo delle gran belle risate. Subito dopo il pranzo noto un sentiero che si inoltra all’interno, non ho le scarpe e mi pare un po’ accidentato. Sono però curioso di vedere dove porta, vedo in fondo uno scorcio di mare e si capisce che non è molto lungo. Do in Consegna la borsa con il resto dell’attrezzatura a Daniela e mi porto solo la macchina fotografica con il 16mm per essere più leggero. Che bello, penso, mi sono fatto l’assistente, comodo! Arrivo alla fine della mulattiera e trovo una baietta di ciottoli, non è la sabbia finissima dall’altra parte, e ci sono foglie e rami, ma non c’è anima viva. A volte basta spostarsi davvero di poco per lasciare indietro la massa. Scatto una foto e mi seggo a godermela per qualche minuto come fosse tutta per me.
Torno nella baia dove sono tutti gli altri e subito dopo si salpa per Hong Island. Arriviamo dopo pochi minuti e approdiamo in un golfo con un lungo e moderno pontile galleggiante. Mettiamo i piedi sulla spiaggia ed anche questo è un posto meraviglioso con sabbia bianca e finissima e scogliere ai lati e faraglioni che rendono l’orizzonte mozzafiato. Però anche qui il solito difetto: troppa gente. Di buono c’è che abbiamo quasi tre ore per rilassarci e io, scattate le foto di rito, mi trovo un cantuccio sotto un albero nella parte più isolata della baia. Lì mi stendo e mi rilasso a tal punto che sto per addormentarmi quando sento un brusio intorno a me. Apro gli occhi e vedo la gente che guarda dietro la mia testa, mi giro e scorgo un enorme lucertolone. E’ lungo un metro e mezzo e pacatamente cerca di farsi strada tra l’erba della selva che arriva fino alla spiaggia. La lingua biforcuta entra ed esce elasticamente dalla bocca ad una velocità impressionante che contrasta con i suoi morbidi e lenti movimenti. Afferro la macchina fotografica e cerco di riprenderlo prima che scappi. Un russo con la pancia enorme, per cercare di farlo girare verso di sé in modo da riprenderlo con la sua telecamerina, è così idiota da lanciargli un bastone e lui, giustamente, si gira e se ne va. Questa è la Thailandia, la natura ti circonda e, mentre sei rapito dalla bellezza del suo mare, alle spalle hai altrettanta natura che ti può sorprendere con la sua flora e fauna allo stato brado (Caterina, tu però qui non ci puoi venire davvero con la tua fobia!).
Arrivati alle tre si va via, la legge impone di lasciare l’isola e così mi avvio verso la barca, ormai la maggior parte dei turisti è già andata e il luogo sta assumendo tutta un’altra magia. Una coppia di innamorati si attardano nelle turchesi acque di questo incantevole posto per approfittare dell’inaspettata intimità e darsi immersi nel mare della thailandia un bacio che probabilmente non dimenticheranno mai. Saliamo sulla barca e prendiamo la via del ritorno. Siamo tutti stanchi e i bambini si addormentano tra le braccia protettivi delle donne.
Tornati ad Ao Nang con Daniela andiamo a fare merenda in uno dei tanti ristoranti sul lungomare e chiacchieriamo raccontandoci delle nostre vite. L’aria è calda e sa proprio di vacanza. Appagata la fame ci salutiamo e ci diamo appuntamento a domattina sempre al Three Bees, stavolta non per un’escursione ma per prendere il bus che ci porterà a Khao Lak. Tornato a casa mi faccio una doccia (non trovo stavolta nessun animale in bagno né morto né vivo) e mi metto a scrivere. Mentre sono a metà della scrittura una zanzara si poggia sullo schermo, poi un’altra. Penso che non può trattarsi di zanzare, ho su la piastrina, saranno moscerini. Continuo a scrivere, un altro moscerino, e poi un altro ancora. Li spazzo via con una manata, altri due arrivano, e poi altri ancora, mi giro e vedo un movimento sopra la mia testa: il lampadario è pieno di insetti volanti che mulinellano intorno alla lampada accesa, guardo meglio e vedo che sono formiche volanti, sono decine. Ma il tempo di capire bene cosa fare e sono diventate centinaia, e diventano sempre di più. La luce le attira! Apro la porta e vedo la lampada della veranda con un nugolo ronzante che turbina intorno al lampione. Cacchio, è un’invasione, ma le altre sere non c’erano! È il caldo e l’umidità di stasera, mi dico, devo fare qualcosa. Spengo tutte le luci, chiudo tutte le finestre e spruzzo mezza bomboletta di insetticida sperando che abbia effetto immediato. Esco dalla capanna chiudendomi la porta alle spalle e poggiando la schiena su di essa, come se avessi paura che possano spingere la porta a forza ed uscire. Aspetto 5 minuti che lo spray abbia effetto ed entro. Il letto è diventato un campo di battaglia con centinaia di cadaveri di moscerino. Apro tutto per cambiare l’aria tenendo la luce spenta, e mi tocca sbattere le lenzuola per liberarmi di tutte quelle formiche volanti gasate.
Mi rimetto a lavoro un po’ seccato dall’esperienza e sperando che non ne arrivino più. Dopo un’oretta sento un ronzio e mi chiedo preoccupate se siano tornate. Mi giro per guardare il lampadario e vedo una vespa che ostinatamente sbatte contro la lampada. Azz! Pure le vespe adesso! Spruzzo il mio fidato spray e la vespa dopo qualche secondo cade di colpo stecchita sul letto. La spazzo via. Mi rimetto a lavoro, ma dopo 5 minuti la stessa cosa: un’altra vespa. Riprendo la mia amata bomboletta e spruzzo. Mi metto nuovamente a lavoro un po’ preoccupato visto che porta e finestra sono chiuse e queste maledette riescono ad entrare comunque. Dopo nemmeno tre minuti si ripete esattamente la scena, e poi ancora e ancora per un totale di 7 cadaveri di vespa per terra. E’ una guerra. Io sono vincitore perché ho un’arma micidiale, ma la bomboletta comincia ad esaurirsi e non sono per niente contento. Per fortuna domani lascio la capanna. Voglio una stanza d’albergo con tanto di aria condizionata!
Che risate !!!!!!! che risate !!!!!!